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La Pedagogia Clinica, un valido approccio per affrontare i Disturbi del Comportamento Alimentare

In Italia e nel mondo occidentale, un numero sempre crescente di persone vive disturbi del comportamento alimentare, in massima parte donne, ma è in aumento, rispetto al passato, la percentuale maschile, in una fascia d’età sempre più ampia. Nei paesi occidentali industrializzati, compresa l’Italia, ogni 100 ragazze nella fascia d’età più a rischio (12-25 anni), 8-10 vivono qualche alterazione del comportamento alimentare, 1-2 nelle forme più serie e pericolose (anoressia e bulimia nervosa). L’età di esordio è, solitamente, fra i 10 e i 30 anni con picchi intorno ai 14-18 anni ma negli ultimi anni si è creata una forte tendenza all’anticipazione di tale fascia d’età. Si rilevano, infatti, anche se in misura meno preoccupante, disagi alimentari precoci (infantili e pre-adolescenziali).

La logica conseguenza di questi dati è la necessità di attuare interventi di prevenzione dei disturbi del comportamento alimentare (DCA) rivolti ad adolescenti e preadolescenti, individuando le azioni vincenti.

Negli anni ’90 gli interventi di prevenzione su base empirica realizzati all’interno dei contesti scolastici (Carter et al., 1997) hanno avuto come obiettivo comune quello di aumentare le conoscenze sui DCA e su una sana alimentazione, per modificare atteggiamenti e comportamenti alimentari scorretti. Queste informazioni venivano fornite ai ragazzi attraverso vere e proprie lezioni tenute in aula.
I risultati di questi interventi hanno dimostrato che l’approccio preventivo basato sull’informazione aumenta le conoscenze su DCA e alimentazione, ma ha scarse probabilità di influenzare le motivazioni sottostanti che generano il disturbo alimentare. Tale approccio si è dimostrato inefficace anche rispetto al miglioramento dell’immagine corporea (le adolescenti continuano ad avere una percezione errata/distorta delle proprie dimensioni e forme corporee e a perseguire un’immagine ideale), e al cambiamento dei comportamenti alimentari. Come dimostrano alcuni autori (Carter, Stewart, Dunn e Fairburn, 1997) questo tipo di approccio può persino essere dannoso proprio perché aumenta la conoscenza degli adolescenti rispetto ai DCA: la trasmissione di informazioni può infatti creare effetti avversi come la “normalizzazione” dei DCA e stimolare le/gli adolescenti a sperimentare le pratiche nocive di cui si è discusso durante l’intervento (vomito, uso di lassativi, ecc.) e che magari prima non conoscevano. I principali “punti deboli” di questo approccio educativo-informativo realizzato nel contesto scolastico possono essere identificati nel fatto che coinvolgono tutti i ragazzi indiscriminatamente e nel fatto che nell’affrontarli, non viene minimamente presa in considerazione la sfera emotiva dei partecipanti.

Si è dunque sentita la necessità di affiancare a questo tipo di progetti un approccio (descritto da Austin in uno studio del 2000), il cui obiettivo è quello di migliorare l’immagine corporea lavorando sull’autostima.
Questo nuovo approccio si basa sull’assunto che attraverso un miglioramento dell’autostima (individuato da più studi come “fattore protettivo” rispetto all’insorgenza dei DCA) è possibile influire positivamente sull’immagine corporea e sui comportamenti alimentari delle/degli adolescenti, realizzando interventi all’interno dell’ambiente scolastico. I progetti di prevenzione dei DCA basati sull’accrescimento dell’autostima sono interventi di promozione della salute, che mirano a identificare e potenziare aspetti positivi del sé allo scopo di produrre dei cambiamenti a livello di auto-percezione per giungere, come obiettivo ultimo, alla modifica dei comportamenti alimentari.
La metodologia utilizzata è di tipo esperienziale, interattivo e cooperativo: nella maggior parte dei progetti basati su questo approccio (O’ Dea et al., 2000; Steiner-Adair et al., 2002) vengono proposte agli adolescenti una serie di attività per sperimentare e sviluppare abilità/competenze personali e sociali fondamentali.
Si è visto che interventi di questo tipo producono un miglioramento e un aumento rispetto alla soddisfazione verso il proprio corpo ed un accrescimento dell’autostima.
Da queste osservazioni si evince come la Pedagogia Clinica, in linea con questo tipo di orientamenti, possa offrire un valido contributo nel prevenire ed affrontare i Disturbi alimentari.

Con il suo approccio, che si avvale di tecniche che privilegiano il fare esperienza in modo attivo, la pedagogia clinica offre alla persona una nuova possibilità di espressione ed ascolto di sé: non si va a lavorare direttamente sulle difficoltà incontrate ma si dà una nuova disponibilità corporea, mentale ed emozionale con la quale affrontarle. Tale nuova disponibilità corporea è favorita da metodi che insegnano a gestire il proprio ritmo respiratorio, la propria gestualità, le contrazioni e decontrazioni muscolari. Mediante un’attivazione sensoriale e percettiva la persona procede ad una graduale riappropriazione del proprio equilibrio psico-corporeo ed acquisisce una nuova sicurezza in sé stessa e nel proprio senso di autoefficacia ed un’immagine corporea non più distorta ma integrata e pienamente accolta nell’insieme del sé.

Con l’ausilio della simbologia vengono inoltre potenziati i diversi canali espressivi che aiutano la persona a comprendere le proprie attitudini e potenzialità.

I soggetti che vivono disturbi del comportamento alimentare, troppo spesso abituati a soffocare le proprie emozioni, a non ascoltarsi, possono così trovare un’opportunità per rimettersi in dialogo con sé stessi e con gli altri.

Proprio in relazione al rapporto con gli altri, una delle modalità di approccio della pedagogia clinica ai DCA è il laboratorio esperienziale di gruppo che unisce al valore dell’approccio esperienziale, un senso di coesione e collocazione nel contesto che conferiscono una particolare sicurezza alla persona ed un rinforzo della propria individualità, prima di tutto all’interno del gruppo e poi, anche in ambito sociale. In questo tipo di percorsi, dunque, la relazione con gli altri e il senso di appartenenza comune aiutano a schiudere nuove e talvolta inaspettate prospettive su sé stessi.

La pedagogia clinica aiuta dunque a riportare un nuovo equilibrio, un modo diverso di vivere il proprio corpo, di percepirlo, di ascoltarlo.

La persona torna così ad essere in armonia col proprio corpo e a poter nuovamente percepire sensazioni, emozioni che non si era più concessa; torna a dialogare con gli altri ma soprattutto con sé stessa.